“La più grande sfida è quella che ancora devo affrontare”, a dirlo è Marco Dolfin, campione paralimpico di nuoto in forza alla società Briante84 e medico chirurgo ortopedico protagonista del libro “Iron Mark” scritto dal fratello, nonché giornalista e scrittore, Alberto.
Una vita comune a molte altre, vissuta tra sport, famiglia, lavoro e quotidianità che, in un giorno qualunque del 2011, si trasformò e divenne diversa, privandolo dell’uso delle sue gambe, ma non della sua determinazione e della sua voglia di lottare e reagire. Ce l’ha voluta raccontare.
Una vita normalissima, fatta di sport, lavoro, abitudini e poi, da quel 2011, tutto è cambiato: cosa è successo?
Era un giorno come tanti altri e stavo andando a lavoro in moto. Proprio a pochi metri di distanza dall’ospedale, una ragazza proveniente dal senso opposto saltò letteralmente lo spartitraffico con la sua auto causando uno scontro frontale pieno con me. Di quel momento, inizialmente, ho avuto ricordi frammentati e ricordo che fui portato immediatamente all’ospedale dove lavoravo non da medico, bensi da paziente: alla prima situazione ero abituato, alla seconda decisamente no.
I colleghi che mi visitarono videro subito che le mie condizioni erano di una certa importanza, ma capii effettivamente la gravità della situazione alcune ore dopo quando iniziai a non sentire più le gambe. La prima diagnosi aveva lasciato uno spiraglio di speranza verso un margine di miglioramento, ma, seppur un minimo miglioramento c’è stato, presi consapevolezza del fatto che avrei continuato a vivere la mia vita in compagnia di una sedia a rotelle.
Quanto tempo è passato prima che tu potessi recuperare la tua quotidianità?
Quasi un anno, cioè il tempo trascorso dalle mie dimissioni ufficiali dall’ospedale dopo i periodi di degenza e riabilitazione durante i quali abbiamo cercato di trovare varie opzioni terapeutiche. Ho dovuto, poi, riorganizzare la mia vita in modalità e con tempistiche diverse.
Lo sport, in questo percorso, ti ha aiutato?
Si. Ho iniziato a praticare il tennistavolo in carrozzina all’interno dell’Unità Spinale di riabilitazione e mi è piaciuto molto. Grazie all’aiuto della campionessa Patrizia Saccà, non ho soltanto iniziato a giocare a tennistavolo, ma ho fatto il mio ingresso nel mondo dello sport, approdando solo successivamente al nuoto.
Tra i tuoi obiettivi, oltre al grande sogno di Tokyo 2021, c’è qualcosa in particolare?
Al momento, il mio più grande obiettivo sono proprio le Paralimpiadi di Tokyo perché, per mia indole, ho sempre puntato a sfide grandi ed ambiziose. Se poi pensiamo che, vista la situazione pandemica ancora in corso, molte gare programmate potrebbero subire rinvii o annullamenti, preferisco concentrarmi su Tokyo.
C’è una medaglia alla quale sei particolarmente legato?
No, nessuna anche perché hanno tutte storie molto diverse. Credo che la migliore sia quella che devo ancora vincere.
Svolgi attualmente la tua professione di chirurgo ortopedico grazie all’uso di un esoscheletro che ti permette di mantenere la posizione eretta: di cosa si tratta esattamente e come funziona?
Si tratta, essenzialmente, di una carrozzina elettronica verticalizzabile dotata di supporti e di fermi che permettono al corpo di assumere la posizione eretta in tutta sicurezza. È un ausilio che viene utilizzato per alcuni tipi di attività volte a migliorare il sistema circolatorio, intestinale e osseo di coloro che sono vincolati da una sedia a rotelle: io ne ho modificato leggermente la destinazione d’uso per unire l’utile al dilettevole, cioè svolgere il mio lavoro in sicurezza per me e per i miei pazienti e fare riabilitazione.
Quanti interventi hai effettuato nella tua “nuova vita” e cosa è cambiato a causa dell’emergenza della Covid-19?
Credo un centinaio, ma ho davvero perso il conto. La pandemia, purtroppo, mi costringe a non poter essere d’aiuto ai colleghi da un punto di vista pratico in quanto, non potendo agevolmente indossare tutte le protezioni necessarie e muovermi comodamente a causa delle stesse, sono costretto a trascorrere la maggior parte del tempo a casa con enorme rammarico e dispiacere.
Da medico, cosa ti sentiresti di consigliare a chi ancora non comprende la gravità degli effetti del Covid?
Credo siano state date molte indicazioni importanti da seguire per prevenire il contagio, ma ciò che è più importante è cercare di ridurre al massimo il carico ospedaliero affinché le risorse destinate all’emergenza possano essere destinate ad altre patologie altrettanto urgenti. Chi può effettivamente capire la gravità della situazione, è il personale sanitario che si confronta costantemente con essa, ma è altrettanto importante la fiducia che le persone ripongono nei medici.
Parliamo del tuo lavoro di papà di due figli: come lo vivi?
Sono papà di due gemelli di 6 anni, Lorenzo e Mattia, e mi piace stare con loro facendo le cose più diverse, dal leggere al cucinare: sono la mia più grande passione.
Per loro sei un eroe, proprio come il titolo del libro ‘Iron Mark’, scritto da tuo fratello e che racconta la tua storia richiamando l’eroe dei fumetti Iron Man. Cosa rappresenta questo libro per te?
A seguito dell’incidente che mi ha catapultato nel mondo della disabilità, sono state per me molto importanti le testimonianze di coloro che c’erano passati prima di me e questo mi ha aiutato. Mi sentivo in debito nei confronti di chi aveva aiutato me e, se la mia storia, potrà essere d’aiuto a qualcuno, non potrò che esserne felice.
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